Io credo esser stato nei più begli
Luoghi di Villa, et al giudizio mio
Gl'hanno a far poco, o nulla con Pegli
Chi lo vedrà come l'ho veduto io,
Possa esser fatto schiavo, s'ei non dice
Chi di vederla sempre havrà desio.
Gl'è posto quasi in piano la radice
D'un monte, e gli rasenta la marina,
Che'l fa del tutto bel, grato e felice.
La state il verno, il giorno e la mattina
Vi si ritrova dolce primavera,
Doti, che rado il ciel largo destina.
Io son d'opinion via più, che vera,
Che dove Dafne hebbe da Febo il fico
Con questo sia la ronfa del Vallera,
Gl'è ben d'Adamo il luogo, ch'io vi dico,
Et è figliolo caro di quel primo
Che ingannato si vide dal nemico.
Per mezzo de la moglie, e così stimo,
Hor quest'è savio, e pria, che muova 'l piede
La pensa bene il che fé poi quel grimo,
Questo suo Peglio è l'idea e la fede,
Di gentilezza e d'ogni bel costume,
A chi con diritto occhio ben lo vede.
Qui splende la virtù, ch'à i buon fà lume,
E qui discaccia a tutti, e manda via
La gola il sonno, e l'oziose piume,
Li frutti, i prati, il parco et ogni via,
Le fonti, l'uccelliere, e l'altre cose
son poste a sesta e con Geometria,
Nel Palaggio vi son meravigliose,
E commode le stanze, oltra misura,
E mica non sognò, chi ve lo pose.
Che vi si vede buona architettura,
Et è dipinto di storie grottesche,
E vi son pietre, e marmi di scultura.
L'acque vive lucenti, dolci e fresche,
Ch'escon di fonti, e di scogli e di sassi
E che fanno vivai, e altre pesche.
Nel riguardarle, e nel sentirle huom stassi
Lieto, e smarrito tanto dolcemente,
Ch'e' non s'avvede e ferma gl'occhi, e' passi.
E tanti bei concetti ne' la mente,
Gli vengon d'hora in hor, di punto in punto,
Ch'al ciel transumanar tutto si sente.
Quand'io fui sopra il pian d'un lago giunto,
E visto un' Isolotto gittar acque,
Con dolce melodia di contrapunto,
Maraviglia e dolcezza al cor mi nacque,
Talch'io dissi per lui, come il Petrarca,
Non al suo amante più Diana piacque,
E vi si và di dentro con la barca,
E per terra si gira tutto fuore,
Piacer ch'ogni dolor dal cuor discarca.
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Io non son né, Poeta né Dottore,
Come disse quel nostro Fiorentino,
E mi venne in capriccio dell'humore.
Quest'è (diss'io al nostro Rinoccino)
Un'esca di virtù, e calamita
D'ogni animo gentile, e pellegrino,
Che Musica, Signor, v'ho io udita,
Che ballar visto, e che dolci pensieri
Sentiti dir da compagnia gradita!
Chi non vi fosse stato volentieri
Vada fra morti a sospirar de' guai,
Facendosi por sotto i cimiteri.
Io per me vi so dir, che consolai
L'anima, e' l corpo, quant'alcun ne volle
E da canto i pensier tutti lasciai,
Messer Gregario ci tenne a panciolle
Con tavole fornite da Signori,
Con vin da tener sempre il becco in molle,
E tante cortesie e tai favori
Ci fece il giorno, ch'io restai prigione
Di così gran carezze e grandi honori.
Nel ringraziarlo, ei mi disse, il Padrone
M'ha imposto che così sempre si faccia
(Com'hor a voi) a tutte le persone.
Io restai vinto, et abbassai la faccia;
Ma il buon Vinci soggiunse e lieto disse
Il Ciel l'accresca, e sempre lo compiaccia.
Mi son restate nella mente fisse
Le cortesie, il luogo, e'l gran diletto,
Pił, che se in marmo, e'n bronzo le scolpisse.
Ben mi dolgo di me, e m'ho in dispetto,
Non saper con la penna, almanco un poco,
Contar l'historia, e dirne il mio concetto,
Ch&ą39;io non saprei più dir di quel da poco
Che mangiò Gelatina di Gennaio
Con le finestre aperte e senza fuoco.
Ma s'io sapessi far col calamaio
Versi come i Poeti da dovero,
Che ne conosco vivi più d'un paio;
Scrivendo mostrerei a tutti il vero
Del luogo e del Signor maravglioso,
E di ciò me n'andrei lieto e altero.
Chi l'hà veduto, per presuntuoso;
Hor mi terrebbe, ch'io direi non nulla
A petto al vero, e parei un basoso
Chi no, direbbe, ei va per una frulla
Ciarlando troppo questo barbagianni
In sù la pesta d'Anton Carafulla
Però standomi stretto ne i miei panni
Insiem goderò questa memoria,
Col Vinci, sio vivessi ben mill'anni,
Ch'a chi l'ha visti o non bisogna historia,
Chi nò, la vada, che gli sia mostrato
Cortesemente, e vedrà s'io ho boria
Con gran ragion d'essere a Pegli stato.
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